Benazir pensa al corpo…

Ora sono nel mio corpo, ma non è sempre stato così.

Ricordo perfettamente il momento in cui per la prima volta mi sono sentita consapevole:

una sera di primavera, stavo uscendo per andare a una festa, era uno degli ultimi anni delle superiori, mi ero vestita “carina” e in questo sentirmi bella mi sono sentita bene. Ma in maniera diversa. Ho percepito in maniera netta il mio corpo mentre camminavo. Mi sentivo sicura di me ed è questo che mi ha portato a sentirmi.

Per anni sono stata chiusa in me e, riflettendoci ora, mi rendo conto che, al contrario di quanto si può pensare, la mia chiusura costituiva anche un’alienazione dal mio corpo.

Si può vivere senza sentirsi.

Il mio cambiamento è stato un tutt’uno tra dentro e fuori.

Con il movimento, con l’attività fisica l’energia si mette in circolo e ci si sente bene, si scoprono parti di sé prima sopite.

Ma la vera svolta l’ha portata il teatro.

L’obbligo, ricercato, di mostrarsi, di agire, di compiere gesti che non ti appartengono o non credevi ti appartenessero. E allora non ti puoi più nascondere. Con la consapevolezza, con la crescita il mio corpo è cambiato.

Se ora non curvo la schiena è perché sono un’altra io, un’altra io che era in me e aspettava solo il momento di emergere. Ma viceversa è anche il camminare eretta che mi fa sentire sicura di me.

Le azioni influenzano i sentimenti.

E una volta preso possesso del corpo diventa più facile, anzi necessario il contatto.

Una stretta di mano, un bacio, un abbraccio. Forse soprattutto gli abbracci, forti, quando due corpi aderiscono e vorrebbero fondersi.

E’ nel contatto dell’altro che prendiamo consapevolezza del nostro esistere ma ciò non sarebbe possibile senza la presenza di noi stessi a noi stessi, la consapevolezza di essere, la nostra voglia di esporci senza filtri.

Il corpo femminile si rivela, nel doppio senso di mostrarsi e di ri-velarsi, velasi di nuovo. Non tutto si mostra alla vista. Il mio sesso non posso guardarlo se mai posso toccarlo. Si sente, al limite tra il dentro e il fuori, ma non si vede. Nel toccarmi devo imparare ad amarmi senza vedermi. Senza farmi oggetto. Anche la schiena, per esempio, non posso guardarla, lo sguardo dell’altro può. Ma il suo occhio non può, e non potrà mai, arrivare a vedere tutto il mio sesso. Nuda il mio piacere non si vede da fuori.Nuda anche lo sguardo dell’altro non mi vede tutta. Non può possedermi. Il mio corpo, il nostro corpo, in sé stesso rifiuta il possesso. C’è sempre uno scarto, un’eccedenza. Nonostante gli sforzi altrui non torna mai una figura definita. E si può prendere solo ciò che si vede. Se qualcosa si cela allo sguardo cosa prendo? Sesso giocoso, il mio, non si lascia mai prendere. È molteplice, non ha un solo nome. Clitoride, labbra, vagina, matrice, collo dell’utero, vulva… tutti in un ciclo senza fine né principio. Senza gerarchia.

Il corpo femminile ha un tempo ciclico, ma mai uguale a sé stesso, che si dischiude, non ossessivo, legato al tempo cosmico. Segue la Luna. È per questo che sono lunatica? Io, per esempio, ho l’ovulazione sempre in Luna Nuova. Mi piace pensare che lì c’è la possibilità di qualcosa di nuovo, che poi inizia a crescere, Luna Crescente, fino ad essere Piena, dove ho bisogno di tornare di nuovo vuota e ho il mestruo. Di nuovo Nuova. È una forma ciclica, ma senza ripetizioni. La mestruazione ci permette di sentire un aspetto altro del sangue. Altro rispetto a quello mortifero. È difficile trovare uomini a cui non faccia orrore il sangue mestruale. Forse perché ne conoscono solo un aspetto, quello legato alla morte, il sangue che si versa in guerra, per esempio. Per noi, se non per una repulsione di riflesso, viviamo, nel contatto con noi stesse, un sangue vivo. In un ciclo che non si lascia chiudere, che non si lascia definire. Il tempo ciclico, in sé stesso, non si lascia mai prendere, non ha né un inizio, né una fine. Come l’orgasmo, mi viene da pensare, al mio perlomeno. Piacere molteplice, sempre aperto, che non si esaurisce mai. È sempre di nuovo, potrebbe essercene ancora. Il punto, per davvero, non arriva mai. Senza fine. Ancora senza presa o possesso.         

In base a che cosa, allora, rischio di essere oggetto, cado, senza volerlo, nella trappola della possesso, cedo al desiderio dell’altro? Forse pesano millenni di oppressione, anche, ma ora non basta più questa spiegazione. Forse nel mio continuo sbilanciamento verso l’altro, nel mio essere relazionale mi perdo e non ritrovo più me stessa. E mi nascondo. Simulo dei ruoli.       

Rivelando il mio corpo mi mostro nella mia autenticità, senza difese, fragile. Il mio corpo porta con sé tutte le mie contraddizioni. Lavorarle senza negarle è la strada verso l’autenticità.

Ma quanti rivestimenti abbiamo da togliere per essere davvero nude? Spesso anche quando siamo nude, solo fisicamente, ci nascondiamo. Quando ci neghiamo un piacere, quando non interroghiamo il nostro desiderio perdendoci in quello condiviso. Quando non ritorniamo a noi nella fedeltà a noi stesse… Mi accorgo che tendo a volere assecondare il desiderio altrui, anche se poi sto talmente male che non cedo o se lo faccio sono piena di patimento. Immagino cosa l’altro può volere e vivo nella finzione, ma poi, mi torna, improvvisamente, imprevista, la realtà quando mi accorgo che cedere al desiderio dell’altro mi apre un punto di sofferenza. Nell’aprirsi fa male, ma può diventare un imprevisto passaggio di libertà. La mia non totale adesione al desiderio altrui, espressa dalla sofferenza, mi riporta sempre alla mia autenticità e libertà. A una felicità aderente al reale, non consolatoria. Dovrei capire che posso espormi, anche nuda, questa volta davvero, senza compiacere l’altro. Il mondo non cadrà di certo.